Storia ed evoluzione dei segni matematici

L’uomo si differenzia dagli altri esseri viventi soprattutto per l’uso del linguaggio. Lo sviluppo di quest’ultimo ha avuto un’importanza fondamentale per la nascita del pensiero matematico astratto, anche se le “parole” che esprimono concetti numerici si sono formate con relativa lentezza.

I primi metodi di comunicazione si basavano, probabilmente, sui gesti, come il contare sulle dita della mano. Questi erano mezzi universali, potevano essere usati da chiunque e consentivano di contare numeri più grandi se si utilizzavano anche le dita dei piedi. Non solo le antiche culture comunicavano così; questa pratica era assai diffusa in Europa fino al XVI secolo, dopo l’introduzione dei numeri indo-arabi, usati tuttora. Le dita erano utili come “lingua comune” tra mercanti di paesi diversi e nel conteggio erano spesso associate all’uso dell’abaco (memoria a breve termine).

E’ possibile contare all’infinito, usando per ogni numero una parola diversa, ma questo è un metodo scomodo e poco efficiente, che in breve sovraccarica la memoria oltre le sue possibilità.

E’ assai più pratico, ad esempio, contare cinque oggetti sulle dita di una mano e poi ricominciare, usando le dita dell’altra mano per contare i gruppi di cinque. Su questo principio si basano i sistemi di numerazione (nell’esempio 5 è la cosiddetta base).

Studiando le civiltà antiche si scopre una varietà di notazioni, che differiscono principalmente per la scelta della base. Quasi sempre le basi erano 2, 5, 10, 20 e 60 (in particolare la numerazione in base 2 era già nota nel 3.000 a.c. ai Sumeri).

Erano tutti sistemi di tipo additivo e quindi scarsamente utilizzabili per eseguire calcoli, sia scritti che verbali.

Il linguaggio non è solo un insieme di segni orali, ma una forma di rappresentazione simbolica. I numeri ne sono un esempio e, alla fine, la cosa importante è la relazione tra simboli.

Per utilizzare i numeri in modo più efficace, con riferimento ai soli simboli e non agli insiemi di cose che possono rappresentare, occorre un’altra innovazione. I linguaggi scritti esprimono concetti diversi tramite la permutazione di un piccolo numero di simboli, perché hanno significato sia l’identità del simbolo sia la posizione che occupa rispetto agli altri (esempio: selva e salve, rea e are ...).

Con il trascorrere del tempo le culture più progredite hanno elaborato migliori e più efficienti sistemi di numerazione. Teoricamente in base 2 si possono rappresentare numeri grandi quanto si voglia, ma in pratica il metodo diventa di complicata lettura, avendo scarsa immediatezza visiva.

Il sistema decimale rappresenta un valido compromesso. L’uso della base 10 deriva dal conteggio sulle dita, ma l’utilizzo del 10 è un fatto di praticità: non è una base troppo grande, né troppo piccola.

Sembra che i matematici babilonesi siano stati i primi ad introdurre, intorno al 2.000 a.c., un sistema addizionale posizionale in base 60, che però non si serviva di 59 simboli diversi. Utilizzava combinazioni di due sole forme, incise sulle tavolette di argilla: un cuneo verticale per il numero 1 ed un cuneo orizzontale per il 10. I numeri minori di 60 venivano scritti in base 10, addizionando i simboli; per i numeri maggiori di 60, si utilizzava il sistema posizionale. Questo metodo poteva essere causa di equivoci. Ad esempio 10;10=10*60+10*1 (610) (doppio cuneo orizzontale), poteva essere confuso con il simbolo utilizzato per il 20. L’ambiguità del significato era dovuta alla mancanza del simbolo 0. Attorno al 2.000 a.c. i Babilonesi tentarono di risolvere il problema con degli spazi vuoti, ma soltanto verso il 300/200 a.c. pensarono di introdurre un simbolo specifico per indicare l’assenza dell’unità. Il problema non era, però, ancora risolto: il simbolo indicava uno spazio vuoto, non era inteso come simbolo del nulla e non veniva utilizzato per scrivere il risultato di una sottrazione come 10-10, cioè niente.

Per i Babilonesi era una contraddizione usare “qualche cosa” per indicare “il niente”. Probabilmente furono gli astronomi ad introdurre il simbolo 0 per rappresentare le frazioni in sessantesimi, ovvero in forma simbolica. In seguito gli astronomi greci indicarono lo zero con un piccolo cerchio e sostituirono le notazioni cuneiformi con lettere dell’alfabeto.

Il sistema posizionale fu introdotto in modo indipendente anche in altre culture, ad esempio nell’America centrale presso l’antica civiltà Maya (500 a.c. Ð 900 d.c.), dove lo zero si rappresentava con un simbolo che ricordava un occhio chiuso.

Gli antichi cinesi inventarono un sistema decimale con segni orizzontali, ma il simbolo 0 fu aggiunto successivamente, importato dall’India. Le popolazioni di quest’ultima regione elaborarono un sistema posizionale che diventerà quello oggi impiegato in tutto il mondo occidentale. In India il concetto di zero era associato al concetto di nulla e poteva rappresentare sia uno spazio vuoto in un sistema numerale sia il risultato dell’operazione 10-10.

In sanscrito zero è sunya, mentre in arabo è as-sifr (in entrambi i casi significa “vuoto”). La parola trascritta in latino medioevale divenne zefirum, da cui si trasformò nell’italiano zefiro, zevero ed infine zero.

Parallelamente la parola cifra (utilizzata per indicare i simboli da 0 a 9), si trasformò in inglese nel verbo to cipher, usato come sinonimo di to count = contare.

Adesso sei uno zero senza cifre davanti. Sono meglio io di te, adesso: io sono un matto, tu non sei nulla.

W. Shakespeare Re Lear atto I, scena IV

L’uso di un simbolo per lo zero non ha però resa immediata l’introduzione dei numeri negativi. Il matematico greco Diofanto (325-409 d.c.), non accettava le soluzioni negative delle equazioni (i matematici cinesi rappresentavano i numeri positivi in rosso e quelli negativi in nero; gli Indù inserivano in un cerchio i numeri considerati negativi; gli arabi invece ponevano un punto sopra il numero negativo).

I progressi nelle notazioni greche si devono a Diofanto, che si occupò principalmente della risoluzione delle equazioni di primo e secondo grado, adoperando simboli algebrici per rappresentare le quantità incognite (s e ss per una o due variabili). Fu il primo ad usare un simbolo numerico per moltiplicare, non usò alcun segno speciale per l’addizione. Citò i numeri positivi e negativi, ovvero quelli che “si aggiungono” e quelli che “si tolgono”.

Questo modo di fare la Matematica, con un linguaggio eterogeneo, con rappresentazioni notazionali in parte descrittive, in parte con abbreviazioni letterali e in parte con soluzioni notazionali, si definisce “algebra sincopata”.

In memoria di Diofanto i concittadini scolpirono sulla sua tomba un enigma che, trasformato in equazione, rivelava l’età della scomparsa.

Hunc Diophantus habet tumulum qui tempora vitae
Illius mira denotat arte tibi.
Egit sex tantem juvenic; lanugine malas
Vestire hinc coepit perte duodecima
Septante uxori post haec sociatur, et anno
Formosus quinto nascitur inde puer.
Semissem aitatis postquam attigit ille paternae,
Infelix subita morte peremptus obit,
Quator aestater genitor lugere superstes
Cogitur, hinc annos illius assequere.

(“Questa tomba racchiude Diofanto. Oh meraviglia. La pietra ti dirà l’età del defunto. Un Dio gli prestò un sesto della sua vita per essere fanciullo e ne aggiunse un dodicesimo fino a che gli spuntò la barba sulle gote. Dopo un altro settimo della sua vita prese moglie la quale gli regalò un figlio dopo cinque anni di matrimonio. Infelice fanciullo! Raggiunta la metà dell’età del padre, se lo prese l’Averno. Il piangente Diofanto gli sopravvisse quattro anni insegnando l’arte dei numeri”).

La seguente equazione

X/6 + x/12 + x/7 + 5 + x/2 + 4 = x

dà l’età della morte di Diofanto, x=84.

Nel XIII secolo Fibonacci considerava le quantità negative solo nei problemi finanziari, nel XVI secolo i numeri negativi si utilizzavano, ma venivano indicati come “falsi”, contrapponendoli a quelli “veri” positivi.

Senza un sistema posizionale, è impossibile effettuare il calcolo in modo sistematico. Con la numerazione romana, la somma si può ottenere il risultato solo con metodi primitivi e con l’ausilio dell’abaco. La notazione cioè non ha alcuna efficacia algoritmica intrinseca. I problemi diventano ancora più complessi per le altre operazioni.

In tutto il basso Medioevo, quando i numeri erano indicati con le lettere dell’alfabeto romano, la simbologia dava luogo a combinazioni alquanto complicate ed a calcoli farraginosi; ne derivavano numerosi errori che provocavano contestazioni negli affari e che costituivano un freno allo sviluppo dell’istruzione e dei traffici economici (attualmente questo sistema, riconosciuto ufficialmente dalla Chiesa, è ancora in uso per indicare i numeri ordinali).

Il successo del sistema posizionale di origine indiana era dovuto a quattro caratteristiche:

  1. i numeri da 1 a 9 erano rappresentati con simboli univoci ed astratti;
  2. era un sistema con un’unica base: 10;
  3. era un sistema posizionale;
  4. faceva uso dello zero.

Gli Indù furono i primi ad usare oralmente la notazione posizionale abbreviata ed il loro sistema di numerazione si può considerare l’innovazione intellettuale che ha avuto il maggior successo.

Nel 1800 Kronecker affermava: “Dio creò i numeri naturali; tutto il resto è opera dell’uomo”. L’invenzione di un sistema di numerazione era considerata cioè tanto importante da ritenerla un avvenimento soprannaturale.

Gli Arabi alterarono gradualmente i simboli indiani, che assunsero via via le forme da noi oggi utilizzate. Secondo la tradizione la numerazione indo-araba fu introdotta in Europa attorno all’anno 1.000 da Papa Silvestro II, con l’uso di un particolare tipo di abaco, la cosiddetta “tavoletta calcolatoria romana”. I vantaggi del sistema erano evidenti e il suo uso si diffuse nel commercio e negli affari, nonostante alcune leggi che ne vietavano l’uso per impedire le frodi.

I numeri arabi, a cui si potevano aggiungere gli zeri, si prestavano alle falsificazioni e furono perciò adottati dai mercanti dell’Europa settentrionale, solo verso la fine del XVI secolo.

L’Italia del 1.300 Ð 1.400 era al centro degli interessi commerciali e culturali europei; l’ampliamento del commercio comportava l’esigenza di introdurre nuovi strumenti matematici, che consentissero una contabilità più rapida e comprensibile.

Nel frattempo gli Arabi erano divenuti i padroni d’Europa e nel periodo tra l’800 e il 1.200 facevano da tramite tra la civiltà occidentale e quella orientale. In campo matematico ereditarono i papiri ellenici e raccolsero scritti persiani e sanscriti che, tradotti, sono stati tramandati sino ai giorni nostri.

Agli Arabi, brillanti inventori di favole magiche, si deve la parola “algoritmo” a cui gli Europei associano l’idea di una “macchina” con simboli misteriosi, capace di risolvere ogni sorta di problema (solo dopo il 1.400 la Chiesa consentì di accettare i simboli numerali degli “infedeli”).

Il termine “algoritmo” si deve al matematico arabo Muhammad Ibn Musà, originario di al-Khuwarizmi, vissuto nell’ottavo secolo dopo Cristo. Egli scrisse due opere; nella prima presentò il sistema numerico posizionale indiano e le quattro operazioni, iniziando proprio con le parole “algoritmo dicit”, l’altra, sulle equazioni, si intitolava “Alshebr Wulmukabala”, da cui il termine “algebra”.

I conventi ed i monasteri occidentali svolsero un’intensa attività di traduzione dei testi greci e latini, ma evitarono di occuparsi delle notazioni scientifiche arabe, bandite in Italia perché in uso presso gli “infedeli”.

L’importanza del sistema posizionale decimale fu riconosciuta solo nel 1.200, quando i grandi navigatori Marco Polo e Leonardo Fibonacci percorsero le rotte commerciali orientali e nordafricane.

Nel frattempo, alla corte di Federico II di Sicilia, si acquisiva, oltre al sistema posizionale, la “grande novità” dello zero, “as sifr” (“nessun segno”).

Leonardo Pisano, detto Fibonacci, scrisse il “Liber abaci”, utilizzando per la prima volta un supporto cartaceo, mezzo maneggevole, che fu l’avvio di una rivoluzione comunicazionale. Nel XIII secolo fu proprio Fibonacci a contribuire alla diffusione della numerazione indo-araba, sottolineando il ruolo dello zero. La potenza di questo simbolo consiste nella sua posizione: posto alla destra di qualsiasi cifra la rende (nel sistema decimale) dieci volte maggiore.

Le nuove notazioni hanno due significati, quello intrinseco e quello posizionale. All’epoca nemmeno Fibonacci aveva intuito che il vantaggio principale del nuovo sistema stava nell’applicabilità alle frazioni (loro uso decimale), per le quali introdusse la “sbarretta” orizzontale.

Le cifre indo-arabe si sostituirono alla precedente simbologia in tutto l’Occidente; non avvenne invece altrettanto con le unità fondamentali del sistema di misura.

Luca Pacioli, allievo di Piero della Francesca e considerato il più grande matematico del 1.400, introdusse in italia la prima notazione della radice quadrata, ponendo le iniziali della parola e a sinistra l’indice della radice. La sua opera principale “Summa de Arithmetica, Geometria, proporzioni e proporzionalità” è il primo ed unico libro scientifico pubblicato a stampa in quel periodo.

L’incompletezza del sistema notazionale (persistevano linguaggio descrittivo, notazioni e calcoli più o meno complicati) limitò la diffusione dell’algebra.

Una persona intellettualmente anche molto capace non riesce ad elaborare più di seicento informazioni al minuto[1]. Gli studiosi rinascimentali si resero conto che un fenomeno complesso, per essere osservato e interpretato dal punto di vista matematico, necessita di notazioni inserite in un sistema coordinato. Non furono infatti i singoli simboli (radice quadrata, pi greco, potenza, sommatoria, ....) che consentirono le grandi scoperte. Fu la nascita del linguaggio simbolico, come un insieme di comandi comunicanti tra loro, che permise di stabilire le relazioni tra le fenomenologie osservate. I primi tentativi di organizzare un sistema abbastanza completo si attribuiscono a Raffaello Canacci e a Giovanni Del Sodo (1.400). L’algebra, ferma al tempo dei Babilonesi e all’opera di Diofanto, fece notevoli progressi passando dalle soluzioni di secondo a quelle di terzo e quarto grado. Le scoperte furono favorite dalla visione universale della cultura rinascimentale. Il 1.500 fu un secolo di guerre e di grandi lotte di conquiste, ma fu anche un periodo di disfide matematiche italiane, che ebbero il merito di stimolare la cultura e di far conoscere i metodi specifici della disciplina che, altrimenti sarebbero forse andati perduti.

Tra i matematici più illustri figura N. Tartaglia, autodidatta di umili origini che, non conoscendo il Latino, fu costretto a scrivere le sue “poesie scientifiche” in volgare. Lo ricordiamo per aver costruito l’omonimo triangolo, matrice di coefficienti per risolvere il binomio (a+b)n. Sono famosi i versi che scrisse per risolvere l’equazione di terzo grado:

Quando che ‘l cubo con le cose appresso
Se agguaglia a qualche numero discreto
Trouan dui altri differenti di esso.
Dopo terrai questo per consueto
Che ‘l lor produtto sempre sia eguale
Al trezo cubo, delle cose neto,
El residuo poi suo generale
Delli lor lati cubi ben sottratti
Verrà la tua cosa principale.

Gli algebristi italiani del 1.500 usavano le lettere per indicare sia le incognite che le operazioni da svolgere, ad es.:

12LmIQp48 aequalia 144m24LpIQ

in cui L sta per x, m per meno, IQ per incognita al quadrato e p per moltiplicato, cioè:

12x - x2 + 48 = 144 - 24x + x2

Furono gli studiosi europei ad introdurre gradatamente la cosiddetta algebra simbolica:

es: “4 plus 2” diventò “4 & 2” (& = et).

In seguito il simbolo di crescita “&” venne rappresentato col “+”, segno della croce, ovvero della crescita dovuta all’avvento della religione cristiana.

Il segno “minus” ovvero “-” derivò dall’uso di porre una linea nelle forme contratte (“mancante” e quindi “sottrarre”).

Il segno “=” stava a significare che due rette // complanari non si sarebbero mai incontrate, quindi erano perfettamente identiche e perciò esprimevano il concetto di uguaglianza.

Il segno della moltiplicazione “x” era legato invece alla croce di S. Andrea, intesa come moltiplicazione della diffusione della religione.

Un tempo l’incognita si chiamava cosa, l’incognita al quadrato censo, l’incognita al cubo cubo, l’incognita alla quarta censo censo, l’incognita alla quinta primo relato ...

F. Viète (1.540) scrisse un’equazione di grado n in termini generali, usando le vocali per rappresentare le quantità ignote e le consonanti per il termine noto. Il matematico diede un’ulteriore svolta agli studi algebrici e si dimostrò così abile nel decifrare i messaggi segreti, da essere accusato di essere d’accordo col diavolo.

R. Descartes (1.600), uno degli studiosi che diedero l’avvio alla matematica moderna, introdusse una nuova “Geometria”, basata sulla corrispondenza tra le equazioni algebriche e le proprietà delle figure geometriche. Perfezionò il simbolismo algebrico con l’uso degli esponenti, delle parentesi graffe e delle lettere x, y e z per indicare le variabili.

La notazione “” comparve invece solo alla fine del 1.600, ma rimase ancora qualcosa di incomprensibile , perché con il simbolo “” non si potevano fare le operazioni, nè applicare le potenze o i logaritmi.

Molti grandi matematici non credevano nell’esistenza dell’infinito e si esprimevano evitandone l’uso. Wallis (1.655), pensando che lo zero rappresentava il primo numero naturale, ritenne che due zeri attaccati potevano indicare efficacemente la fine della serie.

Nel 1.600 comparvero i simboli di valore assoluto || e le notazioni “x” e “:”, rispettivamente per la moltiplicazione e per la divisione. Gli astronomi greci trattarono la trigonometria con notazioni diverse dalle attuali, già uno o due secoli prima di Cristo. Gran parte di queste opere, a suo tempo ritenute perdute, furono invece tradotte e tramandate dagli Arabi. Il termine “trigonometria” si deve al matematico tedesco B. Pitiscus, che nel 1.595 scrisse un trattato sulla misura degli archi e degli angoli dei triangoli. Gli astronomi del 1.600 dovevano affrontare calcoli molto impegnativi per trasformare il prodotto o il quoziente di due funzioni trigonometriche in somma e differenze. Fondamentale fu l'introduzione dei logaritmi, la scala di base decimale e tutte le operazioni che ne conseguono.

I termini “sin”, “cos” e “tang” furono riportati da R. di Chester, uno dei più famosi traduttori occidentali (“sin” è la traduzione araba di “jaib” = insenatura). La notazione “logaritmo” deriva da “logos” (rapporto) e “arithmos” (numero).

In campo scientifico l’uso della stessa simbologia matematica diventò strumento di comunicazione internazionale (all’epoca l’Europa era sinonimo di mondo). La creazione del simbolismo, l’introduzione della geometria analitica e delle nuove metodologie del calcolo infinitesimale di Newton e Leibnitz favorirono l’approfondimento (Bernoulli e Laplace) del calcolo della probabilità (introdotto da Pascal e Fermat) e la sua applicazione alla demografia ed alle assicurazioni.

Eulero (1.707-1.783) inventò simboli tuttora usati per la concisione e la potenza della comunicazione algoritmica che sottendono. Si entrò così nel sistema notazionale moderno, con al centro il calcolo infinitesimale e l’analisi geometrica, che consentono di operare in tutti i campi del sapere. Alcune notazioni erano nuove, altre sostituirono i simboli preesistenti.

I Pitagorici scoprirono l’irrazionalità di pi greco; all’epoca dei Greci si cercò di calcolarne il valore esatto, con la speranza di ricondurlo alle conoscenze già acquisite. Le nuove notazioni numeriche, introdotte col sistema metrico decimale, consentirono calcoli sempre più precisi, tanto da esprimere pi greco con più di trenta cifre decimali, nel vano tentativo di scoprirne la ciclicità ed il valore frazionario.

Lambert (1.761) dimostrò che pi greco è un numero irrazionale e Lindemann (1.882) che pi greco non può essere radice di un’equazione algebrica.

Eulero indicò la notazione “e” alla base dei logaritmi neperiani ed introdusse il simbolo “f(x)” per la funzione,

e

per le derivate parziali e, rispettivamente, per gli incrementi delle funzioni.

A cavallo del 1.700, si accese un dibattito tra i seguaci di Newton, che prediligeva le applicazioni e i contenuti e Leibnitz, che sosteneva il rigore formale. Il primo si avvicinò di più ai moderni fondamenti del calcolo infinitesimale; le notazioni differenziali di Leibnitz furono essenziali per gli sviluppi successivi (, dx, dy). A Leibnitz si deve anche il primo accenno sull’uso dei determinanti, ma la stesura della notazione è piuttosto incerta e non può essere attribuita ad un unico matematico.

Nel 1.847 G. Boole pubblicò “l’analisi matematica della logica”, in cui applicò allo studio della logica la simbologia, i concetti ed i metodi della matematica. Questi studi costituirono parte integrante della geometria proiettiva, della teoria delle strutture delle algebre astratte, dell’analisi funzionale e della teoria dei circuiti elettrici, i cui risultati furono fondamentali per la successiva rivoluzione informatica.

Dalla teoria della probabilità si giunse ad un sistema di metodi e procedimenti per il trattamento delle ipotetiche e si aprì la strada ai moderni sistemi artificiali, nei quali si utilizzano il calcolo della probabilità e la logica matematica per la definizione delle scelte comportamentali. Nacque un nuovo sistema scientifico da cui deriveranno importanti scoperte utilizzabili nell’industria e nella vita quotidiana.

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, si tentò di ricostruire la logica e di riformulare la matematica, in presenza dei cosiddetti “paradossi” (Frege, Russel, Hilbert in Germania, Peano in Italia). I formalisti ritenevano che la matematica non avesse bisogno degli assiomi, ma trovasse le sue fondamenta nella logica. Poiché, secondo questi autori, i postulati della logica sono arbitrari e formali, anche la matematica è formale e priva di collegamenti con il mondo reale.

Peano creò un linguaggio formalizzato, in grado di esprimere la logica ed i risultati più importanti delle scienze matematiche (formulario del 1.894). Questo simbolismo è usato tuttora (, , , , ...).

Nei primi decenni del Novecento, alcuni matematici francesi, mimetizzati sotto lo pseudonimo di N. Bourbaki (generale francese che partecipò alla guerra di Crimea e si occupò della riorganizzazione dell’esercito), si dedicarono al cosiddetto metodo deduttivo: dagli assiomi al particolare. L’obiettivo consisteva nel comprendere sinteticamente le diverse branche della matematica in poche strutture, strettamente legate tra loro. Questo progetto si basava sul formalismo rigido, con pochissimo spazio per il linguaggio descrittivo, troppo variabile perché sempre soggetto ad interpretazioni.

Queste sono le premesse per l’utilizzo degli attuali software matematici che adottano, sua come formule che come comandi, il linguaggio del “sistema delle notazioni”.

Bibliografia essenziale

Segni matematici e internet


[1] Conrad Waddinton, Strumenti per pensare, Biblioteca Est, 1977.


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